IX

«ASPASIA»

Una vendetta contro la bella Fanny, una sconfessione del suo amore, uno di quegli inni di liberazione che implicano un rimpianto secondo lo schema classico della Libertà metastasiana: certo sono punte che non mancano in questa poesia nutrita sottilmente anche di succhi velenosi, di quella triste ironia che pervade tanti «pensieri» di questo periodo, ma non risolvono il motivo principale del canto che è sempre piú che vendetta o giustificazione dei propri vaneggiamenti, l’affermazione della propria personalità e del proprio mondo interiore. Questo è il punto attivo e vitale del canto, il punto che spiega la forza con cui il Leopardi distingue la donna transeunte dalla donna ideale (la sua donna), riconferma la necessità intima di quell’esperienza e fa consistere l’inganno non nell’ideale, ma nella identificazione di quella superiore realtà con una forma particolare inevitabilmente insufficiente. Donde validità riconosciuta al mondo del Pensiero dominante che non aveva nome anche se vi traspariva la suggestione di Aspasia.

Quel platonismo ardente che aveva caratterizzato il Pensiero dominante[1] forma qui come un terribile ingorgo che produce il patetico del canto (non piú la purezza ironica di Alla sua donna, non piú la pienezza sicura del Pensiero dominante) e che tende a risolversi attraverso l’affermazione del suo valore intimo alla forza personale che lo ha sollevato pur provocando un duplice moto di acre risentimento e di enfasi intellettuale. Cosí questo canto che ha una sua opulenta bellezza esita fra abbondanze enfatiche e una specie di fanatismo di rigoroso e meticoloso «distinguere» che quanto piú indugia e si allontana dalla forza personale che lo sostiene tanto piú diviene sofistico e pericolosamente esplicativo. Ma il nucleo è saldo e quel senso di virile dignità che da motivo morale di una maggiore consapevolezza diviene motivo estetico di una poetica unitaria antiidillica, è qui vivo nella sua adesione al presente, alla certezza di un mondo intimamente posseduto fuori di ogni vagheggiamento di sogno nostalgico e le distinzioni a cui accennavamo son per lo piú energici tagli con valore musicale e l’esaltazione dell’inganno «estremo» è operata sempre nei confronti di una piú bassa realtà.

Anche il realismo (ben lontano da quello che poteva commuovere i critici dell’ultimo Ottocento) della prima parte di Aspasia, che potrebbe apparire in contrasto con una poetica aliena da ogni descrittivismo, ha qui invece una sua ragione e non solo contenutistica: il bisogno di superare un passato cosí recente rappresentandoselo come presente, rivivendolo nella sua costruzione piú evidente e sensuosa (ma una sensuosità emblematica e a suo modo trasfigurata) per poi liberarsene avendolo riconosciuto affascinante, ma limitato e inferiore a quell’ideale che il poeta assimila alla sua solitudine profonda, alla sua superiorità ad un mondo («fango») in cui rientra il pretesto fisico di Aspasia.

Non che si tratti di un ingenuo procedimento freudiano ante litteram (fare affiorare la commozione del trauma psichico per purificarsene), ma certo il Leopardi agiva per separare il «pretesto», dopo averlo rivissuto e precisato, dall’ideale a cui serbava ancor fede. E proprio occorreva che riaffiorasse la realtà del primo incontro (o di quell’incontro in cui il poeta fu «proie de Vénus»), dell’incontro che originò l’inganno, l’illusoria unione di Aspasia e della «nova felicità», per poter meglio sceverare i due termini e salvare quello che è tutt’uno con la vita personale del poeta («amore, sola causa degna di vivere»: Arimane). Cosí anche il realismo della prima strofa adempie ad una sua funzione connessa con la poetica centrale del canto, serve a far risaltare il nuovo stato del poeta e la sua atmosfera ricca di suggestioni si diffonde in tutto il canto portando una eleganza come odorosa ed opima anche in trame piú secche e scolorite.

Non dunque il realismo è senz’altro (come apparve ad alcuni critici fra cui il Malagoli) il motivo animatore della rappresentazione di Aspasia, ma è a sua volta condizionato da una piú larga esigenza e va al di là di un semplice descrittivismo in una forza di rappresentazione piena che vive nel resto del canto, non morbida, ma risoluta e violenta.

Si pensi all’inizio della prima strofa, si pensi alla decisione con cui è delineata la bellezza di Aspasia e si ammetterà che questo «realismo» deriva in linee energiche e stagliate proprio dallo stesso animus poetico che sorregge poi la separazione di donna e amore e che costruisce al di sopra di Aspasia la certezza della grandezza personale del poeta.

Sí che non c’è fondamentale distacco fra una prima parte descrittiva e una seconda ragionativa: la stessa energia anima le due parti anche se da un tono piú opulento si passa ad una musica piú dura e se dopo la vita di Aspasia va crescendo sempre piú chiaramente la vita del poeta che pure animava implicitamente anche quella nutrendola di un piglio deciso che, come abbiamo visto, non manca neppure in Consalvo. E che vi sia un crescendo di intensità verso la fine è anche secondo la natura di questa poetica che ama finali rilevati e non idillici slarghi.

Come nasce del resto nella prima stanza l’immagine di Aspasia? Non come ricordanza vaga e sognante («O Nerina e di te forse non odo...») in un passo lento che si sprofonda e risale, ma da una sensazione intensa, non romita e trasposta in lontananze ed accordi («viene il vento recando...»): in un’aria di eleganza moderna ottocentesca e di squisitezza suggerita anche dal nome di Aspasia (squisitezza con una vena di voluttà[2]), da una sensazione quasi immediata, da una passione lucida, da evidenza di possesso, non di abbandono. Ed anzi la sensazione che suscita il ricordo viene in un secondo momento (e quasi senza il tepore dell’abbandono sentimentale, con una evidenza magica di scatto proustiano) quando già si è affacciato con una forza calma accentuata dal nome posto in fine, il tema di Aspasia:

Torna dinanzi al mio pensier talora

il tuo sembiante, Aspasia.

Poi il tema dà luogo ad uno sviluppo suggestivo e quasi trascolorante per riaffermarsi con maggiore certezza opulenta:

quella superba vision risorge.

A cui poco aggiunge l’esclamazione troppo classicheggiante dei versi 9-10

(quanto adorata, o numi, e quale un giorno

mia delizia ed erinni!)

forse inserita per appoggio ritmico e per un prolungamento di quel tono di eleganza che nei primi versi sa creare una dimensione speciale, sí neoclassica, ma per nulla archeologica: un’aria che nel suggerimento petrarchesco e nel ricordo di Alla sua donna accoglie una ricchezza tutta spirituale di paesaggi e di immagini prima labili e rapide come colpi di luce «en plein air», poi consistenti e opulente in una ricerca di armonia funzionale che supera la tenerezza delle «vie dorate e gli orti» in un tono piú aereo anche se meno realizzato, in una serie di colori interni anche se piú precisi e di apparenza realistica. La sensazione base del ricordo viene dopo come a render piú sostanzioso questo passato che si fa intensamente presente e ad accrescere l’atmosfera densa, voluttuosa (ma non abbandonata) da cui può sorgere direttamente la «superba vision».

Quella impressione primaverile cosí carica, quel movimento intenso, poco disteso e trasparente,

(mover profumo di fiorita piaggia

né di fiori olezzar vie cittadine),

preparano come la prima folata di un denso profumo, il passo 15-26, la «superba vision» che pure non riesce alla bellezza di quei primi due versi. Il Leopardi fa qui un singolare sforzo per svolgere, quasi in spirali violente intorno a un centro di tensione affascinante, parole e mosse adatte ad una musica densa che può far pensare a certi passi delle Grazie foscoliane, ma meno puramente neoclassica, piú ottocentesca, piú turgida, nell’insistenza di certi particolari (i baci «scoccati» nelle «curve» labbra dei bimbi, vivi quasi in una procacità incestuosa).

La musica di Aspasia si svolge qui al di là della perfezione e della incisività classicistica da cui partono per risultati piú ardenti le parole coerenti di questo momento: le «nitide pelli», il colore selvaggio e sfatto della «bruna viola», le mosse brevi, eleganti, energiche della figura femminile, «inchino il fianco», la vita dell’interno ottocentesco condensata nel simbolo estetico della parola «accolta» con il suo senso di chiusa, densa voluttà.

Ma il platonismo insito già nell’«angelica forma», tutto acceso alla maniera di questo nuovo Leopardi, rompe la chiusura antologica della prima strofa

(«novo ciel, nova terra»)

e media il passaggio alla seconda dopo un inciso esteriore e preoccupato di rilevare la forza drammatica della passione e la coscienza dell’inganno che sciupa spesso quanto piú vuol essere precisa e tempestiva la bellezza del canto scendendo a vera preoccupazione prosastica (versi 28-32).

Aperta sul tema platonico «raggio divino» che riprende il verso 27 «e quasi un raggio / divino», è proprio la scomparsa del «quasi» che dà alla nuova strofa un carattere deciso e potente di crescendo poetico ad impeti, a contrasti, ad esclusioni. E proprio la voce della poesia si alza dove l’affermazione del valore e la negazione del disvalore è piú violenta:

Or questa egli non già, ma quella, ancora

nei corporali amplessi, inchina ed ama...

Perch’io te non amai, ma quella diva

che già vita, or sepolcro, ha nel mio core.

Quella adorai gran tempo...

Queste mosse cosí piene ed energiche giustificano anche i momenti meno intensi trascinandoli e servendosene come preparazione, magari piú indugiante e minuziosa, come i due ricorsi all’immagine della musica (versi 34 e 67) che introduce un’aura di estasi e di rapimento ben intonato alla «superba vision» che splende in tutto il canto[3]. E gli accenni classici agli «ignorati Elisi», alla «gran parte d’Olimpo», portando un tono di pienezza aurea fanno da contrappeso a quanto di arido può esservi nella polemica antifemminile. Sí che la forza animatrice del canto nella sua violenza, nel suo accento vigoroso con cui la realtà viene degradata a disvalore e innalzato l’ideale di «sensi profondi, sconosciuti e molto / piú che virili», caricandosi dei riflessi di questa luce matura, rende non astratto il passaggio già sottolineato dalla prima parte a quella in cui il ritmo si fa piú incisivo e tagliente.

I tagli, le chiuse severe e perentorie sono mezzi stilistici intimi ad una costruzione coerente non ornamentale, in cui il pensiero leopardiano con il suo materialismo e il suo platonismo (e uno degli incanti di questo poeta e di questi ultimi canti è appunto l’incontro romanticissimo di materialismo e platonismo, di luci ardenti su nessi vigorosamente razionali) è finalmente tutto presente come mezzo poetico nella sua ansia di farsi espressione, di suggerire la sua intima forza acquistando una certezza calda che manca ad esempio in tanti epigrafici Pensieri. E quelle frasi angolose («non cape ecc.»), quelle lucreziane[4] e settecentesche precisazioni sensistiche («che se piú molli» ecc.) vivono appunto in funzione di una musica complessiva e mal si misurerebbero con un calcolo di immediata e limitata convenienza raffinata.

Nella terza strofa il motivo poetico si fa piú continuo e abbondante nella pienezza di un ricordo che per tanti lati esercita ancora il suo fascino splendido e dolente, che trova la sua acme nei magnifici versi 70-74, ricchi dell’aria iniziale e di una forza che ricorda A se stesso con un calore piú sensibile:

Or quell’Aspasia è morta

che tanto amai. Giace per sempre, oggetto

della mia vita un dí: se non se quanto,

pur come cara larva, ad ora ad ora

tornar costuma e disparir.

Dopo un finale piú scialbo la quarta strofa assume un ritmo anche piú sdegnato ed eroico e le parole si fanno estreme piú che altrove: «altero capo», «indomito mio cor», «me di me privo», e si accalcano espressioni perfino psicologiche nel loro desiderio di violenza e di evidenza:

Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto

spiar sommessamente, a’ tuoi superbi

fastidi impallidir, brillare in volto

ad un segno cortese, ad ogni sguardo

mutar forma e color.

Espressioni che, raggiunto un estremo quasi di «outrance», vengono serrate dai forti versi 101-103:

Cadde l’incanto

e spezzato con esso, a terra sparso

il giogo: onde m’allegro,

nei quali tanta è la intima forza che anche l’espressione letteraria ed abusata del «giogo» pare nuova ed immediata.

Dopo la pausa forte di «onde m’allegro», si snoda il finale in cui il tema di A se stesso pare sensibilizzarsi e dividersi nella doppia direzione di orgogliosa certezza di superiorità divenuta anche troppo «intelligente» e di rimpianto delle illusioni che vibra malgrado tutto al centro degli ultimi versi nell’immagine piú esaltata

(è notte senza stelle a mezzo il verno)

come il senso quasi cattivo di una ironica vendetta («miro e sorrido») vive accanto alla sequenza di parole nude e suggestive in cui si ritrova – nel loro stacco e nella loro pienezza – quel doppio carattere di decisione e di maturo profumo che è tipico di questo canto.


1 Ma si ricordi che per il Bunsen il Leopardi era stato sempre essenzialmente un «platonico» (lettera del Bunsen del 5 luglio 1835, in Epistolario del Leopardi, VI, Firenze 1940, p. 291).

2 Si può notare la sicura presenza non del solo ricordo storico, ma dell’etimologia: bramata o addirittura «amplectenda».

3 Immagine che culmina poi nella seconda sepolcrale dopo pensieri giovanili per i quali vale soprattutto quello del 24 settembre 1821 nello Zibaldone e sono commento le vecchie pagine di A. Graf, Il L. e la musica, in Foscolo, Leopardi, Manzoni, Torino 1898, e di R. Giani, La lirica e l’arte musicale in L., in L’Estetica nei Pensieri di L., Roma 1904.

4 Va attentamente segnata non tanto l’affinità lucreziana di questi ultimi canti – e a proposito il noto lavoro di Spartaco Borra, L. e Lucrezio, Bologna 1925 – quanto il riaffiorare con accenti romantici di elementi sensistici al di là della descrizione e della satira.